martedì 4 novembre 2014

" Dormono sulla Colllina "

Per rimanere nell'ambito della “ memoria storica” voglio oggi attirare l'attenzione su un libro uscito da un paio di mesi che forse meglio di qualunque saggio o “pizza” ci racconta gli anni della storia italiana dal 1969 ad oggi.
Si tratta di “Dormono sulla Collina” di Giacomo Di Girolamo
Lo consiglio vivamente – Per stimolare la curiosità di seguito la prefazione a cura di Andrea Gentile e il primo brano del libro.

State attenti all’Italia: è una forma pericolosa.
A dare il titolo a questa opera, Dormono sulla collina, è un verso del poeta Edgar Lee Masters, ripreso e tradotto e cantato da Fabrizio De André.

Fabrizio De Andrè - La Collina

Non è in questo modo però che vanno le cose.
L’Italia, che sembra importare tutto, è un potente immaginario che crea da sé eventi di portata mondiale, figure universali e figurine adesive, esplorazioni e scoperte. C’è un modo di sopravvivere tutto italiano, il che significa che l’Italia dispone di una difesa tutta sua contro la morte. Se, saltando oltre 1250 pagine, andate a vedere come finisce questa storia, scoprirete di quale difesa si tratta: è il rudere, l’anima che si fa fossile, una commistione che rappresenta la memoria e il superamento dell’oblio.
È certamente la Spoon River italiana, quella allestita da Giacomo Di Girolamo. Di Girolamo, già autore dell’Invisibile (Editori Riuniti) e di Cosa Grigia (pubblicato per questa casa editrice), si configura qui, a tutti gli effetti, come uno scrittore per eccellenza. È egli autore che percorre i sentieri della scrittura come immersione; scrittore che esonda, quando la corrente è lieve; che carezza, quando ci sarebbe da sferrare un pugno. La tragedia, la commedia, persino la comicità; emergono qui relitti di ogni fenomeno linguistico, che non può che essere fenomeno umano.
Qui Giacomo Di Girolamo si configura come autore enciclopedico, anche. La sua è una forma deviata e poetica dell’enciclopedia delle enciclopedie, cioè quella dei Lumi francesi, il cui Discorso preliminare è scritto da d’Alembert. Vi si legge:
Un tribunale – che diventò potentissimo nel mezzogiorno dell’Europa, nelle Indie, nel Nuovo Mondo – condannò un celebre astronomo, colpevole di aver sostenuto che la Terra si muove, e lo dichiarò eretico; all’incirca come il papa Zaccaria qualche secolo prima aveva condannato un vescovo perché non condivideva l’opinione di Sant’Agostino circa gli antipodi, e aveva intuito la loro reale esistenza seicento anni prima che Cristoforo Colombo li scoprisse. In questo modo l’abuso dell’autorità spirituale, congiunta a quella temporale, obbligava la ragione al silenzio, e poco mancò che si negasse al genere umano il diritto di pensare.
Siamo all’inizio della Encyclopédie e tutto è italiano: Galileo, Colombo, i vescovi e i papi, perfino il santo naturalizzato. C’è un peso della storia che grava sulla Nazione. Il suo passato è sempre il suo futuro, ha tradotto l’impero in una forma di primato della scoperta e ha fondato l’idea stessa di immaginario moderno.
Chi dorme sulla collina sono i morti, che enunciano le arti e i mestieri praticati in vita, gli esempi della commedia umana eletti a emblemi della tragedia collettiva.
Non sarà però un caso che la prima «voce» di questo coro non sia umana: a parlare è la Bomba di Piazza Fontana. È uno degli innumerevoli inizi italiani e a cantarlo è un ordigno capace di segnare l’immaginario di quell’Italia che possiamo in modo equivoco definire «contemporanea»: là dove accade sempre tutto in contemporanea.
Anni plumbei, anni mirabili, anni di schermi televisivi accesi e di fari spenti nella notte, anni di pop e di partiti popolari, con le inevitabili afferenze di mafie, logge, piovre, rivoluzioni mancate, riforme promesse e promesse rimandate, cronache nere e cronache rosa, un partigiano come presidente e presidenti campioni di partigianeria. Si potrebbe andare avanti all’infinito, iniziando dal 1969 e arrivando a oggi.
Questa enciclopedia collettiva e letteraria evita proprio di andare avanti all’infinito.
Sceglie le voci dei propri poetici fantasmi e li fa parlare in prima persona, singolare e plurale, guidando chi legge in una stupefazione che non può non dare le vertigini, come appunto fa l’autentica narrazione di storie, sempre e ovunque.
È significativo che la composizione e la pubblicazione di un simile compendio di storia e immaginario avvenga in un tempo come il presente, in cui sembra affievolirsi la memoria e i liceali stentano a ricordare chi fossero Aldo Moro o Enrico Berlinguer (due tra le migliaia di personaggi che affollano la scena di quest’opera). L’avvento di quelle «reti», che in Italia si chiamavano «cibernetiche» nel 1970 e «social» nel 2014, ha condotto a una sorprendente esportazione della memoria, fuori da tutti noi. Il progressivo imporsi dell’onnipresenza di Wikipedia, al pari della pervasività di tutto il Web, sembra avere ottenuto un duplice effetto. Da un lato esiste una deresponsabilizzazione della memoria, con tutto ciò che questo comporta. Si va a cercare fuori di sé il ricordo: nomi, date, identità – ovunque i database e i motori di ricerca hanno preso il sopravvento. E, d’altro canto, insieme all’esplosione di saperi e di memorie istantaneamente raggiungibili con una ricerca su smartphone o pc, ha presentato il conto una certa poesia di cui la memoria collettiva è sempre stata costituita.
Una bellezza liberatoria o consolatoria o esplorativa governa la scelta, il percorso, l’elezione che si compiono ricordando. Qui interviene lo scrittore, che è un filosofo e un giornalista, come in effetti è, appunto, Giacomo Di Girolamo, eroico estensore di questa enciclopedia italiana sterminata ed epica, lirica e folta di dati. Sembrerebbe l’impronta di una mente, impressa su pagine di carta. E lo è, ma non si riesce a distinguere dove quella mente sia individuale (dell’autore) o collettiva (di tutti noi). È un atto di precisa poetica che ha fatto sì di depositare le moltissime note di quest’opus magnum in Rete e non su carta. Poiché la ricognizione, per quanto letteraria, è rigorosa e precisa, esistono gli apparati.
Ci siamo abituati a leggere uno degli infiniti atti fondativi dell’Italia, cioè la Commedia dantesca, con il testo che corre sopra uno sproposito di notazioni. Tuttavia il poema di Dante rimane appunto un poema e come tale lo si può leggere, prescindendo dalle note. In un tempo dei saperi diffusi e condivisi, l’opera rimane il testo dell’autore, che è sempre chiarissimo e definisce gli eventi e i personaggi, mentre le informazioni di base sono stabilmente reperibili fuori, in Rete.
I migliori morti della nostra vita parlano qui in qualità di spettri, come in tutta la letteratura. E parlano da fantasmi, come in tutte le occasioni di unità nazionale, il cui apice è forse televisivo, per quanto riguarda l’arco temporale che occupa questo cantico delle creature italiane. Si tratta di Alfredino, un primato esclusivamente italico: la morte per la prima volta trasmessa in diretta su piccolo schermo e, incredibilmente, non fatta vedere, consumata in un buco.
Quel buco compare senza soluzione di continuità nella vicenda italiana: nella Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana lo si vede inghiottire cose e persone nel luogo preciso della detonazione; il pozzo artesiano di Vermicino è un foro intorno a cui si muove tremulo il presidente; il «buco» del Banco ambrosiano o di Parmalat fa sparire le sostanze e le sicurezze degli azionisti, in una misura eccessiva, mai raggiunta nella storia internazionale. Foro di pallottola, conca oscura del dopobomba, vuoto del tubo catodico – l’Italia accade storicamente e poeticamente come fossa scoperta, come traforo e miniera, come buco nero che inghiotte la luce della ragionevolezza. Del resto, all’Italia appartiene la maternità della Bomba per eccellenza: fu Enrico Fermi a procurarne la matrice atomica.
Questa è un’opera indefinibile: è una caratteristica, da sempre, di tutte le opere autentiche.
Tra enciclopedia e romanzo (criminale o epico) si dà una via di mezzo: potremmo dire: è l’antologia. Eppure nemmeno il genere antologico riesce a dare conto di un immaginario ordinato e impazzito come il nostro. Il fiore della fantasia italiana si presenta qui attraverso un intreccio di voci, di motivetti, di slogan politici e pubblicitari, di frasi tratte da canzoni o intercettazioni. L’Italia, paese via via bel, senza, normale, vecchio, corrotto, per essere illustrato esige operazioni al tempo stesso coraggiose e caute.
Una nazione capace di assassinare un proprio poeta si merita la sua condanna in forma di assoluzione, proprio il canone che portò Pasolini a definire l’Italia «un equilibrio caotico». Tentiamo allora una definizione. «Equilibro caotico»: può essere una delle tante formule per descrivere l’opera che tenete in mano.
Andrea Gentile

 

Tratto da  “Dormono sulla Collina” di Giacomo Di Girolamo - Il Saggiatore 2014

Sorelle d’Italia – Piazza Fontana, Milano

12 DICEMBRE 1969

Dov’è Pietro che vende bestiame? E Carlo, il nonno di Elisabetta?
Dov’è Luigi: cerca ancora i suoi clienti? E Paolo, che non ce la faceva a riposare? Dov’è Angelo, padre di undici figli?
Dove sono Giovanni, Attilio, Gerolamo?
Il gestore del cinema, il macellaio, l’agricoltore.
Cercateli, cercateli in piazza Fontana.
Sono entrati in una banca, sono usciti a pezzi.
In un tappeto di vetri rotti.
Noi bombe siamo la grammatica della storia patria: Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus eccetera, eccetera, eccetera… come recitava Gaber.
E io sono, in tutti i sensi, la sorella maggiore.
L’inizio di una strategia.
Il peso di una verità negata che lo Stato italiano ancora oggi porta dentro di sé.
Ore 16 e 37. Banca nazionale dell’agricoltura. Diciassette vittime, ottantotto feriti.
In televisione, a Canzonissima, Massimo Ranieri canta «Se bruciasse la città».
Mancano dodici giorni a Natale.
Ricordatemi come volete: la bomba contro il popolo, luna rossa d’odio, il giorno dell’innocenza perduta, primo rintocco di campana.
Io sono l’erezione cutanea nella grigia nebbia padana che ha sfregiato il viso bello del Paese.
Ma chi non ha avuto la sua inquietudine adolescenziale?
C’è sempre un momento in cui bruci tutti i ricordi del tuo passato, tutte le bambole con cui dormivi.
Lo cantavano pure i Pooh alla loro «Piccola Katy». Canzone, non a caso, del 1968.
Io sono quel momento.
Così fragorosa, così evidente da rendere stucchevole ogni tentativo di cercare una scusa.
Così allarmante da procurare – negli anni a venire – un silenzio profondo.
Un silenzio che è la fine del mondo.

Chiudi pian piano e ritorna a dormire
nessuno nel mondo ti deve sentire…
Ciao ciao, piccola Katy.

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