Per
rimanere nell'ambito della “ memoria storica” voglio oggi
attirare l'attenzione su un libro uscito da un paio di mesi che forse
meglio di qualunque saggio o “pizza” ci racconta gli anni della
storia italiana dal 1969 ad oggi.
Si
tratta di “Dormono sulla Collina” di Giacomo Di Girolamo
Lo
consiglio vivamente – Per stimolare la curiosità di seguito la
prefazione a cura di Andrea Gentile e il primo brano del libro.
“State
attenti all’Italia: è una forma pericolosa.
A
dare il titolo a questa opera, Dormono sulla collina, è un verso del
poeta Edgar Lee Masters, ripreso e tradotto e cantato da Fabrizio De
André.
Fabrizio De Andrè - La Collina
Non
è in questo modo però che vanno le cose.
L’Italia,
che sembra importare tutto, è un potente immaginario che crea da sé
eventi di portata mondiale, figure universali e figurine adesive,
esplorazioni e scoperte. C’è un modo di sopravvivere tutto
italiano, il che significa che l’Italia dispone di una difesa tutta
sua contro la morte. Se, saltando oltre 1250 pagine, andate a vedere
come finisce questa storia, scoprirete di quale difesa si tratta: è
il rudere, l’anima che si fa fossile, una commistione che
rappresenta la memoria e il superamento dell’oblio.
È
certamente la Spoon River italiana, quella allestita
da Giacomo Di Girolamo. Di Girolamo, già autore
dell’Invisibile (Editori Riuniti) e di Cosa
Grigia (pubblicato per questa casa editrice), si configura
qui, a tutti gli effetti, come uno scrittore per eccellenza. È
egli autore che percorre i sentieri della scrittura come immersione;
scrittore che esonda, quando la corrente è lieve; che carezza,
quando ci sarebbe da sferrare un pugno. La tragedia, la commedia,
persino la comicità; emergono qui relitti di ogni fenomeno
linguistico, che non può che essere fenomeno umano.
Qui
Giacomo Di Girolamo si configura come autore enciclopedico, anche. La
sua è una forma deviata e poetica dell’enciclopedia delle
enciclopedie, cioè quella dei Lumi francesi, il cui Discorso
preliminare è scritto da d’Alembert. Vi si legge:
Un
tribunale – che diventò potentissimo nel mezzogiorno dell’Europa,
nelle Indie, nel Nuovo Mondo – condannò un celebre astronomo,
colpevole di aver sostenuto che la Terra si muove, e lo dichiarò
eretico; all’incirca come il papa Zaccaria qualche secolo prima
aveva condannato un vescovo perché non condivideva l’opinione di
Sant’Agostino circa gli antipodi, e aveva intuito la loro reale
esistenza seicento anni prima che Cristoforo Colombo li scoprisse. In
questo modo l’abuso dell’autorità spirituale, congiunta a quella
temporale, obbligava la ragione al silenzio, e poco mancò che si
negasse al genere umano il diritto di pensare.
Siamo
all’inizio della Encyclopédie e tutto è italiano: Galileo,
Colombo, i vescovi e i papi, perfino il santo naturalizzato. C’è
un peso della storia che grava sulla Nazione. Il suo passato è
sempre il suo futuro, ha tradotto l’impero in una forma di primato
della scoperta e ha fondato l’idea stessa di immaginario moderno.
Chi
dorme sulla collina sono i morti, che enunciano le arti e i mestieri
praticati in vita, gli esempi della commedia umana eletti a
emblemi della tragedia collettiva.
Non
sarà però un caso che la prima «voce» di questo coro non sia
umana: a parlare è la Bomba di Piazza Fontana. È uno degli
innumerevoli inizi italiani e a cantarlo è un ordigno capace di
segnare l’immaginario di quell’Italia che possiamo in modo
equivoco definire «contemporanea»: là dove accade sempre tutto in
contemporanea.
Anni
plumbei, anni mirabili, anni di schermi televisivi accesi e di fari
spenti nella notte, anni di pop e di partiti popolari, con le
inevitabili afferenze di mafie, logge, piovre, rivoluzioni mancate,
riforme promesse e promesse rimandate, cronache nere e cronache rosa,
un partigiano come presidente e presidenti campioni di partigianeria.
Si potrebbe andare avanti all’infinito, iniziando dal 1969 e
arrivando a oggi.
Questa
enciclopedia collettiva e letteraria evita proprio di andare avanti
all’infinito.
Sceglie
le voci dei propri poetici fantasmi e li fa parlare in prima persona,
singolare e plurale, guidando chi legge in una stupefazione che non
può non dare le vertigini, come appunto fa l’autentica narrazione
di storie, sempre e ovunque.
È
significativo che la composizione e la pubblicazione di un simile
compendio di storia e immaginario avvenga in un tempo come il
presente, in cui sembra affievolirsi la memoria e i liceali stentano
a ricordare chi fossero Aldo Moro o Enrico Berlinguer (due tra le
migliaia di personaggi che affollano la scena di quest’opera).
L’avvento di quelle «reti», che in Italia si chiamavano
«cibernetiche» nel 1970 e «social» nel 2014, ha condotto a una
sorprendente esportazione della memoria, fuori da tutti noi. Il
progressivo imporsi dell’onnipresenza di Wikipedia, al pari della
pervasività di tutto il Web, sembra avere ottenuto un duplice
effetto. Da un lato esiste una deresponsabilizzazione della memoria,
con tutto ciò che questo comporta. Si va a cercare fuori di sé il
ricordo: nomi, date, identità – ovunque i database e i motori di
ricerca hanno preso il sopravvento. E, d’altro canto, insieme
all’esplosione di saperi e di memorie istantaneamente raggiungibili
con una ricerca su smartphone o pc, ha presentato il conto una certa
poesia di cui la memoria collettiva è sempre stata costituita.
Una
bellezza liberatoria o consolatoria o esplorativa governa la scelta,
il percorso, l’elezione che si compiono ricordando. Qui interviene
lo scrittore, che è un filosofo e un giornalista, come in effetti è,
appunto, Giacomo Di Girolamo, eroico estensore di questa enciclopedia
italiana sterminata ed epica, lirica e folta di dati. Sembrerebbe
l’impronta di una mente, impressa su pagine di carta. E lo è, ma
non si riesce a distinguere dove quella mente sia individuale
(dell’autore) o collettiva (di tutti noi). È un atto di precisa
poetica che ha fatto sì di depositare le moltissime note di
quest’opus magnum in Rete e non su carta. Poiché la
ricognizione, per quanto letteraria, è rigorosa e precisa, esistono
gli apparati.
Ci
siamo abituati a leggere uno degli infiniti atti fondativi
dell’Italia, cioè la Commedia dantesca, con il
testo che corre sopra uno sproposito di notazioni. Tuttavia il poema
di Dante rimane appunto un poema e come tale lo si può leggere,
prescindendo dalle note. In un tempo dei saperi diffusi e condivisi,
l’opera rimane il testo dell’autore, che è sempre chiarissimo e
definisce gli eventi e i personaggi, mentre le informazioni di base
sono stabilmente reperibili fuori, in Rete.
I
migliori morti della nostra vita parlano qui in qualità di spettri,
come in tutta la letteratura. E parlano da fantasmi, come in tutte le
occasioni di unità nazionale, il cui apice è forse televisivo, per
quanto riguarda l’arco temporale che occupa questo cantico delle
creature italiane. Si tratta di Alfredino, un primato esclusivamente
italico: la morte per la prima volta trasmessa in diretta su piccolo
schermo e, incredibilmente, non fatta vedere, consumata in un buco.
Quel
buco compare senza soluzione di continuità nella vicenda italiana:
nella Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana lo si vede
inghiottire cose e persone nel luogo preciso della detonazione; il
pozzo artesiano di Vermicino è un foro intorno a cui si muove
tremulo il presidente; il «buco» del Banco ambrosiano o di Parmalat
fa sparire le sostanze e le sicurezze degli azionisti, in una misura
eccessiva, mai raggiunta nella storia internazionale. Foro di
pallottola, conca oscura del dopobomba, vuoto del tubo catodico –
l’Italia accade storicamente e poeticamente come fossa scoperta,
come traforo e miniera, come buco nero che inghiotte la luce della
ragionevolezza. Del resto, all’Italia appartiene la maternità
della Bomba per eccellenza: fu Enrico Fermi a procurarne la matrice
atomica.
Questa
è un’opera indefinibile: è una caratteristica, da sempre, di
tutte le opere autentiche.
Tra
enciclopedia e romanzo (criminale o epico) si dà una via di mezzo:
potremmo dire: è l’antologia. Eppure nemmeno il genere antologico
riesce a dare conto di un immaginario ordinato e impazzito come il
nostro. Il fiore della fantasia italiana si presenta qui attraverso
un intreccio di voci, di motivetti, di slogan politici e
pubblicitari, di frasi tratte da canzoni o intercettazioni. L’Italia,
paese via via bel, senza, normale, vecchio, corrotto, per essere
illustrato esige operazioni al tempo stesso coraggiose e caute.
Una
nazione capace di assassinare un proprio poeta si merita la sua
condanna in forma di assoluzione, proprio il canone che portò
Pasolini a definire l’Italia «un equilibrio caotico». Tentiamo
allora una definizione. «Equilibro caotico»: può essere una delle
tante formule per descrivere l’opera che tenete in mano.
Andrea
Gentile
Tratto da “Dormono sulla Collina” di Giacomo Di Girolamo - Il Saggiatore 2014
Sorelle d’Italia – Piazza Fontana, Milano
12
DICEMBRE 1969
Dov’è
Pietro che vende bestiame? E Carlo, il nonno di Elisabetta?
Dov’è
Luigi: cerca ancora i suoi clienti? E Paolo, che non ce la faceva a
riposare? Dov’è Angelo, padre di undici figli?
Dove
sono Giovanni, Attilio, Gerolamo?
Il
gestore del cinema, il macellaio, l’agricoltore.
Cercateli,
cercateli in piazza Fontana.
Sono
entrati in una banca, sono usciti a pezzi.
In
un tappeto di vetri rotti.
Noi
bombe siamo la grammatica della storia patria: Piazza Fontana,
Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus eccetera,
eccetera, eccetera… come recitava Gaber.
E
io sono, in tutti i sensi, la sorella maggiore.
L’inizio
di una strategia.
Il
peso di una verità negata che lo Stato italiano ancora oggi porta
dentro di sé.
Ore
16 e 37. Banca nazionale dell’agricoltura. Diciassette vittime,
ottantotto feriti.
In
televisione, a Canzonissima, Massimo Ranieri canta «Se
bruciasse la città».
Mancano
dodici giorni a Natale.
Ricordatemi
come volete: la bomba contro il popolo, luna rossa d’odio, il
giorno dell’innocenza perduta, primo rintocco di campana.
Io
sono l’erezione cutanea nella grigia nebbia padana che ha sfregiato
il viso bello del Paese.
Ma
chi non ha avuto la sua inquietudine adolescenziale?
C’è
sempre un momento in cui bruci tutti i ricordi del tuo passato, tutte
le bambole con cui dormivi.
Lo
cantavano pure i Pooh alla loro «Piccola Katy». Canzone, non a
caso, del 1968.
Io
sono quel momento.
Così
fragorosa, così evidente da rendere stucchevole ogni tentativo di
cercare una scusa.
Così
allarmante da procurare – negli anni a venire – un silenzio
profondo.
Un
silenzio che è la fine del mondo.
Chiudi
pian piano e ritorna a dormire
nessuno
nel mondo ti deve sentire…
Ciao
ciao, piccola Katy.